Quante volte, non solo negli anni passati ma ancora oggi, abbiamo distribuito volantini o incollato manifesti recanti, in caratteri cubitali PRIMO MAGGIO GIORNO DI LOTTA E NON DI FESTA! Quante volte abbiamo cercato di riportare nelle piazze lo spirito combattivo e inflessibile che si rifacesse alle origini e allo spirito di questa ricorrenza.
Sì, perché il Primo Maggio non è la giornata del concertone, dei palloncini, dei comizietti “obbligati” fatti da personaggi che con quella data non hanno più un vero rapporto. No, non è questo, il Primo Maggio è e continua ad essere il giorno nel quale i lavoratori intendono ribadire le ragioni della loro lotta contro lo sfruttamento e l’autoritarismo padronale.
La data del Primo Maggio non capita a caso ma affonda le proprie radici in tragici avvenimenti accaduti sul finire dell’Ottocento. Siamo a Chicago, nel pieno di un conflitto sociale che vede da un parte le lotte dei lavoratori oppressi e sfruttati dal capitalismo arrembante dell’America ottocentesca, e dall’altra una struttura autoritaria che trova i suoi fedeli cani da guardia in polizie, pubbliche e private (i famosi Pinkerton), intese a svolgere il proprio ruolo solo ed esclusivamente con gli strumenti più duri della repressione: violenze, sparatorie, arresti illegali, denunce arbitrarie costruite sul nulla, continue provocazioni e minacce. Il diritto di sciopero è praticamente inesistente e ogni manifestazione operaia viene duramente repressa, se va bene “solo” con i licenziamenti indiscriminati dei militanti più in vista, se va male, spesso, molto spesso, anche con il sangue. Il Primo maggio del 1886, data scelta dalle Unioni Sindacali come momento culminante di un lungo periodo di agitazione per le otto ore di lavoro, viene indetto uno sciopero generalizzato che vede la partecipazione di decine di migliaia di lavoratori. Il giorno successivo vede l’estensione generalizzata della mobilitazione operaia. Il tre maggio, durante un presidio ad Haymarket Place di fronte alla fabbrica McCormick, fra le più determinate a contrastare le richieste dei lavoratori e già distintasi per il licenziamento di massa di quanti non accettavano le sue feroci condizioni di sfruttamento, la polizia e i Pinkerton intervengono senza alcuna giustificazione per sciogliere la manifestazione. Spari e violenze indiscriminate lasciano sul freddo selciato i corpi di quattro manifestanti uccisi, a cui si aggiunge un numero incalcolabile di feriti e di arresti.
La risposta operaia non si fa attendere e il giorno dopo, il 4 maggio, sempre ad Haymarket Place si raccoglie pacificamente una grande folla per ascoltare la parola di quegli oratori anarchici e libertari che stanno sostenendo e organizzando da tempo la lotta operaia. Ancora una volta, nonostante la chiarissima volontà degli scioperanti di astenersi da qualsiasi forma di violenza, si assiste all’intervento indiscriminato e gratuito della polizia durante il quale, per opera probabilmente di un provocatore, scoppia una bomba che uccide un poliziotto. La reazione poliziesca, dettata anche dal panico, non si fa attendere e sul terreno si contano altri undici morti, di cui ben sette poliziotti uccisi dal fuoco amico. Se si aspettava l’occasione buona, eccola arrivata: la bomba, la violenza degli operai, l’istigazione a delinquere degli anarchici, l’irresponsabilità delle richieste operaie, e chi più ne ha più ne metta. Borghesi, benpensanti, capitalisti e pescecani hanno buon gioco nell’eccitare le paure di una opinione pubblica frastornata dalle continue grida d’allarme della quasi totalità dei mezzi d’informazione e cavalcando questa onda emotiva possono finalmente cercare una rivincita ai cedimenti che avevano dovuto accettare nei mesi precedenti.
La “giustizia” cala la sua pesantissima mano sugli esponenti del movimento anarchico, individuati come causa prima e criminale del sovvertimento dell’ordine costituito. Gli arrestati, quelli che dovrebbero essere gli ispiratori e gli esecutori del lancio della bomba, sono tutti anarchici e libertari, lavoratori in gran parte immigrati tedeschi. Vengono arrestati il direttore dell’ «Alarm» August Spies e il suo redattore Michael Schwab, Samuel Fielden, uno degli oratori al comizio, il tipografo Adolph Fischer, il negoziante George Engel, il falegname Louis Lingg, il giornalista Oscar W. Neebe. Albert Parsons direttore del periodico «Arbeiter Zeitung» e un altro degli oratori nel comizio del 4 maggio, inizialmente sfuggito all’arresto, si consegnerà ai suoi carnefici in un atto di generosa solidarietà con i suoi compagni di lotta.
Il processo inizia il 21 giugno dello stesso anno, e come è facile immaginare, non sarà altro che una tragica farsa condita di false deposizioni: una giuria composta di affaristi, impiegati d’ordine, parenti di poliziotti, un’accusa interessata solo a combattere le organizzazioni sovversive senza la minima preoccupazione di portare solide prove contro gli accusati, una corte giudicante che ha già emesso la sua criminale sentenza ben prima dell’inizio del processo stesso. E infatti il verdetto sarà pesantissimo: condanna a morte per tutti gli imputati ad eccezione di Neebe condannato a 15 anni, e successiva modifica nell’ergastolo per due di loro, Fielden e Schwab. Lingg sfuggirà alla vendetta statale suicidandosi in carcere il giorno prima dell’esecuzione, mentre Spies, Parsons, Fischer ed Engels verranno impiccati l’11 novembre del 1887.
Che il processo si fosse svolto nella più assoluta illegalità, negando la più elementare forma di giustizia, dovrà riconoscerlo, alcuni anni dopo, lo stesso governatore dell’Illinois John Peter Altgeld che, graziando quanti ancora marcivano in galera, accuserà i giudici dell’epoca, dichiarando, fra l’altro che “gli atti del processo dimostrano che il giudice lo diresse con feroce malignità con pungenti insinuazioni fatte al cospetto dei giurati con l’evidente intendimento di influenzare la giuria”, una giuria che, come abbiamo visto “aveva un tale preconcetto che non avrebbe potuto emettere sulla causa un sereno verdetto”.
Coloro che saranno da quei giorni ricordati come “I Martiri di Chicago” affrontarono con grande coraggio e fermezza nei propri ideali le fasi processuali e l’esecuzione, e ribadendo la più coerente adesione ai propri ideali non concessero alla canea reazionaria la soddisfazione di una ritrattazione o di una richiesta di clemenza. Troppo presente era in tutti loro il vero significato di quelle vicende: quello di una fase durissima della lotta contro lo sfruttamento nella quale non si poteva derogare dalle proprie responsabilità pena il tradimento dei sacrifici e delle aspirazioni della classe lavoratrice. Le ultime parole di August Spies, accompagnate dai Viva l’anarchia di Fischer ed Engel, furono drammaticamente profetiche: “Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che oggi soffocate con la morte!”.
Due anni dopo, alla conclusione del secondo congresso dell’Internazionale dei lavoratori svoltosi in Francia, verrà presa la decisione di fare del Primo Maggio, in ricordo dei Martiri di Chicago, il giorno di lotta internazionale per la conquista delle otto ore di lavoro: otto ore per il lavoro, otto ore per il tempo libero, otto ore per il riposo. Il drammatico epilogo delle giornate di Chicago troverà la più bella conclusione nell’omaggio e nel ricordo di quei nostri, antichi compagni.
Massimo Ortalli